Mehrsprachigkeit und kulturelle Einheit Europas: Das Thema dieses Beitrags ist an sich ein Oximoron. Der Autor erinnert daran, wie in einer romantischen Vision von Volk und Nation die Identität durch eine Sprache gestiftet wird. Und dennoch ist Europa ohne sprachliche Vielfalt undenkbar. Im Text wird versucht nachzuweisen, dass Mehrsprachigkeit und kulturelle Einheit keineswegs in einem widersprüchlichen Verhältnis zueinander stehen. Im Gegenteil: Die Analyse des Kulturbegriffs vermag aufzuzeigen, dass die Vielfalt eine konstituierende und bereichernde Dimension der Einheit sein kann. (Red.) | Il titolo presenta le fattezze di un ossimoro: vi si accostano le nozioni contrapposte di pluralità e unità. Perciò, il tema cui questo titolo fa riferimento ha bisogno di essere articolatamente analizzato. In effetti, una concezione tuttora largamente diffusa, risalente alla visione romantica di popolo e di nazione, vuole che la lingua sia la dimensione fondamentale di quella cultura che costituisce il fulcro identitario di una comunità nazionale. Non sarebbe stato in questa prospettiva ragionevole costruire una comunità, come l’Unione Europea, formata da popoli che parlano numerose lingue diverse una dall’altra. E peraltro la diversità linguistica, come tutte le altre diversità, è dichiaratamente rispettata dall’Unione Europea. La Carta dei diritti fondamentali (2000), all’articolo 22 (Diversità culturale, religiosa e linguistica) recita: “L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica”. Sebbene in questo documento figuri un termine come rispettare, e non termini più significativi di un impegno positivo come promuovere o incoraggiare, l’Unione Europea, impegnandosi al rispetto della diversità linguistica, mostra chiaramente la sua sensibilità al tema del plurilinguismo. La pretesa, certamente audace, di questo intervento è di mostrare che il plurilinguismo non è affatto in contraddizione con l’unità culturale e che anzi ne è un tratto distintivo e valorizzante. Ma questo ci rende inevitabile riconsiderare, pur con estrema sinteticità, le nozioni di cultura, comunità e lingua e i loro reciproci rapporti, tentando di andare oltre quella concezione romantica che vede corrispondere a una lingua una sola cultura e una sola comunità di appartenenza. Dobbiamo anzitutto tenere conto, in prospettiva antropologica, della correlazione fra cultura, identità e appartenenza comunitaria. È la condivisione di una cultura che rende effettiva l’identità e che, quindi, permette di dire “noi”. Ma che cosa si intende propriamente con cultura? Si tratta di una parola antica che si è caricata attraverso i secoli di una polisemia apparentemente irriducibile. Cultura deriva dal verbo latino colo, di cui è nomen actionis; l’etimologia di questo termine appare subito interessante perché dice di una cura che si ha: agrum colere (agricoltura) indica il coltivare per far crescere, per ottenere frutto; Deos colere indica un rapporto affettuoso e di devozione verso il divino. Colo è quindi una parola che ha nel suo fondo semantico una ‘amorosa attenzione per’: cultura animi è in Cicerone quella formazione intellettuale accurata che, secondo lui, si realizza compiutamente nella filosofia. Ma è altrettanto significativa la specificazione non più individuale, ma sociale – e quindi antropologica – che il termine assume nell’endiadi cultus atque humanitas: Cesare, riferendosi ai Belgi, ne parla come di quelli che “a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt”3, che sono cioè i più lontani dalla civiltà della Provenza, che in quel momento era per Greci e Romani una frontiera del mondo civile. Cultus è dunque cultura hominis, come quella attenzione amorosa all’uomo che significa non-barbarie, insomma civiltà, cioè un’attenzione profonda, costante, che si fa costume. Cultus implica quindi in questa endiadi l’autocoscienza del proprio valore da parte dell’uomo che ha cura di sé, che sa coltivarsi: cultura hominis, ossia humanitas culta. [...] |